Rocker nostalgici degli anni 70 o metallari alla ricerca di nuove strade, dal deserto all’iperspazio? Questo è l’interrogativo che possiamo porci ascoltando Metamorpher, il nuovo disco dei lombardi Sonum X, formazione composta da Matt Saturn (batteria/voce), Andrea Bombaci (chitarra/voce) e Marco Zerbinati (basso). Il trio debutta nel novembre 2016 con l’omonimo EP che riscontra subito feedback positivi tra le testate di settore. A giugno 2019 esce l’album Purifire che porta il trio ad esibirsi live in varie zona della penisola, ed adesso la band è tornata, con il suddetto nuovo album, disponibile nei migliori digital store e sulle migliori piattaforma di audio-streaming. Ma chi sono esattamente i Sonum X?
Il genere di questi ragazzi è costituita da una miscela incredibile, costituita da rock di matrice anni 70 (Black Sabbath in primis) spinto in una direzione tra stoner, space rock, heavy metal anni 80 e doom, con divagazioni anche nel grunge degli anni 90. Certo, Metamorpher è un prodotto estremamente originale e ben arrangiato, non si possono trovare termini diversi per indicare un genere così ricco.
Nel loro sound, sicuramente l’iperspazio è protagonista: Intro.Version, Signals from the future, Outro.solution sono delle divagazioni universali, attuate con un approccio che dagli Hawkwind arriva fino ai Gong, ma non disdegna gli sviluppi che nel metal contemporaneo ha avuto l’universo. Se consideriamo, poi, che in Outro.solution è evidente una notevole sapienza strumentale, è ancora più evidente l’approccio intenso ed autenticamente musicale dei nostri. La ricerca di questi ampi orizzonti è anche in Dust’n’bones, nella quale la dimensione psichedelica, soprattutto all’inizio e alla fine, si manifesta in un dialogo con un dialogo tra terra (le percussioni) e cielo ( le distorsioni e gli effetti di chitarra e basso). Ma questa band è soprattutto rock, heavy metal, e propone dei riff aggressivi e granitici: bastano le prime note di Metamorpher, nelle quali ci sembra di sentire gli Electric Wizard, o i Kyuss, sempre conditi di quella dimensione cosmica, che trapela chiaramente nel disco; oppure, quello di 5th Avenue Lights, dove la distorsione ha un colore NWOBHM. Ma gli anni 90 sono giusto dietro l’angolo: Lost in Space suona a metà tra i Tool e gli Alice in chains.
È chiaro che una miscela sonora così esplosiva difficilmente si presta ad interpretazioni. Ma la band è anche molto altro: è attenta alle linee vocali, ora corali ora epiche, ora pulite ora condite di distorsione. Inoltre colpisce come, in brani di durata non troppo elevata, sia possibile ascoltare così tanti sviluppi. È come se ogni brano sia un universo a sé, perfettamente concluso.
Ciò che resta da fare è entrare nell’universo di questa band, con una storia fatta di grande musica, composta da musicisti che sono un po’ nostalgici, un po’ avanguardisti. Fanno esattamente ciò che la grande musica debba fare ai nostri giorni.
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