Anudo – Zeen

Non fosse in prestito dallo slang anglosassone, il titolo dell’album d’esordio degli Anudo, “Zeen”, potrebbe ricordare i virtuosismi deliranti di Zeena Parkins, con i quali sicuramente condividerebbe l’estro indocile e la grinta straripante. Il primo capitolo di Giacomo Oro, Daniele Sciolla e Federico Chiapello si tinge dalla prima traccia di colori indefiniti: “Lovers” potrebbe essere color eliotropo, con i suoi singulti capricciosi e martellanti, “Ken”, con i suoi vapori rockeggianti e decisi, potrebbe essere bruno Van Dyck, e così via. Se sulla carta è sempre difficile accostarsi a opere disomogenee, nel caso in questione la trama eterogenea è un punto di forza decisivo: partendo da “Forest (Everytime)” sembra di imbattersi tra le sculture di Arte Sella e di non saperne più uscire. Labirinti sotterranei, imprevedibili come scale di Penrose, messi in musica magistralmente, con l’ausilio prezioso di John Davis, che ha dato il suo tocco finale al disco, masterizzato negli studi di Metropolis di Londra. Le musiche sembrano onde e, come le onde di Virginia Woolf, scalpitano, confondono, ammaliano e soltanto alla fine scopriamo che ci è stata raccontata una storia, sedimentata nell’anima. “Zeen” trapana i bordi dell’imprevedibilità ricreando intrigo e mistero, bussando alle porte di Cocorosie, Imogen Heap, della Kate Bush di “The dreaming”. Brani come “All We Are” e “Deep” rivelano la presenza di un voce che rotola con credibilità ovunque si voglia inerpicare, mostrando una diapositiva in bianco e nero di un tempo che è stato, un po’ beat generation, ma che forse sarà ancora. Siamo di fronte a un inizio in picchiata, sbalorditivo e profetico: “the best is yet to come”

  • 9/10
    - 9/10
9/10

You must be logged in to post a comment Login