Recensione: Virtual Time – “Long distance”

Per Irma Records, il nuovo album “Long Distance” dei Virtual Time è uscito in tutti i digital stores coronando  al meglio un percorso iniziato ormai cinque anni fa, a Vicenza. Composta dal batterista Alessandro Meneghini, Luca Gazzola e arricchita in seguito dall’arrivo del cantante Filippo Lorenzo Mocellin e del bassista Marco Lucchini, la band ha dato vita a un progetto che suona vecchio,  straordinariamente vecchio, come se lo ascoltassimo in una cantina, nascosti, con indosso un chiodo e la voglia di rivoluzione. Un disco, quello  della band di Bassano del Grappa, che mette da subito in chiaro le cose con la sua “Intro”, che traghetta immediatamente  l’ascoltatore nelle suggestioni del disco con distorsioni robuste. Poi, il via: “ Remember” ha in sé tutto l’hard rock degli anni ’70, mai eccessivo e mai isolato dal contesto. Si ravvisano, qua e là, patterns alla Guns ‘n Roses di “Use your illusion”, le liriche riprendono le tematiche già mentovate altrove precedentemente dal gruppo delle maschere sociali e dei ruoli alienanti della vita moderna. L'invito, a colpi di basso e batteria, è rivolto con la stessa foga degli anni del rock, quando si affidava ancora alla musica l'arduo compito di veicolare le emotività correlate ai messaggi più importanti. “Blow away”, invece, omonima al brano di George Harrison, accende le atmosfere più intimistiche del disco aprendosi a un'emotività meno pulsante ma non meno emozionante. Anzi: quando si tratta di scanalare la superficie compatta del rock pruriginoso, la band fa centro nel plesso solare delle emozioni vincendo una sfida parecchio ostica, affatto prevedibile. In questo mood alla Slash's Snakepit, arriva “Waves are calling” a riprendere la grinta irremovibile raccontando equivoci e passioni folgoranti, cruciali per testualità ad ampio respiro che non sono disposte a scadere nello scontato. Ma è l'anima folk di "Fireworld II" ad essere l’evidente  rivelazione dell'album: non è solamente la capacità di creare una musica di insieme energica e vigorosa, il fiore all’occhiello di “Long distance”,  è anche la bellezza di poter ascoltare le tracce in qualsiasi ordine, godendosene una per volta per disposizione di gusto personale. Perché il disco è come una parola "bifronte senza capo né coda": la lettura, o in questo caso l'ascolto, all'inverso, pescando una qualsiasi traccia all'interno del disco, è sempre piacevole, di una bellezza fiera che strattona senza urtare, solleticando le corde del buongusto. Nell'aria vorticano riferimenti agli Aerosmith, agli Skid Row, agli Alabama shakes, ma mai per offuscare il talento e la personalità di questi fantastici quattro: al contrario, è sempre per esaltarne l'originalità individuandone le radici solide e la presa incrollabile. Va detto che la voce di Filippo Lorenzo Mocellin è una highway in corsa per l'orizzonte, una viaggio che ci si può permettere il lusso di percorrere chiudendo gli occhi e lasciando scorrere le canzoni dell'album. E tutti questi elementi, conditi dalla curiosità di sentire dal vivo questi brani esplosivi , fanno di questo disco un’ottima prova. Ora ci incuriosisce il prosieguo. 

 

  • 8.5/10
    - 8.5/10
8.5/10

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