Recensione: Arca – “Arca” (XL recordings)

Terzo album per Arca, in uscita il 7 aprile, il disco omonimo segue i precedenti “Xen” e “Mutant” ed è il primo a essere realizzato per XL recordings. Disco nel miglior stile del produttore venezuelano contorto, eclettico, indecifrabile, di certo mai noioso. Si inizia con “Reverie”, potente incantesimo musicale in cui le voci si aprono come esercito di Winkie e aumentano la tensione del brano fino al culmine asfittico in cui l’apnea si scompone frammentaria per lasciare al silenzio il momento post-atomico. La scesa in campo dell’artista nell’utilizzo della voce è un goal riuscito e valore aggiunto e ci si rende da subito conto che Arca sulla terra sta scomodo come Behemoth, con una coda dell'ego più grossa del tronco di un cedro e degli ossi come tubo di bronzo. Annichilito e imbizzarrito, in "Desafio" esplora l'abisso che ruggisce dentro, conscio di scoppiare dalle interiora in una sofferenza che è cataclisma delle emozioni umane, pestifere e spesso dolorose. La summa musicale del suo genio affida all'elettronica una sola percentuale del suo talento: l'altra, questa volta, deriva dai testi fulminanti per incisione e appeal. La tensione in stile Laurel Halo e gli ultimi  Sigur Ròs (Brennisteinn e Yfirborð più di tutte) delinea una pittura alla  Hieronymus Bosch, simile alle xilografie apocalittiche di Albrecht Dürer. Il brano parla di amore di un amore bovarista che nulla ha da inviare al miglior Bécquer: il sentimento riscalda il tessuto delle viscere, lo esalta tuonando come un Bronteion. Si prosegue con il singolo “Piel”, in cui  la voce nuda è il preludio di atmosfere incupite che ricordano Jarboe, con gradazioni moderate di Arvo Pärt. la canción de cuna del venezuelano Alejandro Ghersi si tinge di gotico per intricare ulteriormente un sound indefinito, specie-specifico di una delle scoperte più esaltanti di questi anni. Pur nella sua immancabile stranezza, le melodie acquisiscono canzone dopo canzone, come masso rotolante nella neve, una certa spiritualità da musica da camera che non fa che scuotere ulteriormente il cuore dell'ascoltatore. Nel mondo di Arca si sta scomodi come a voler fare le scale di Escher di corsa: ogni brano è una matrioska, racchiude mille risonanze di rivolgimenti cosmici nei quali la musica diventa una procuratio prodigiorum per espiare tutte le colpe. Ecco che tracce ostiche come “Coraje” (che strizza l’occhio all’amica Björk di “Holographic Entrypoint”), “Castraciòn” (molto “Enter the void”) o “Urchin”, tsunami strumentale commisurato a un'emotività veemente di uno stile sempre più in fieri, risuonano semplicemente (si fa per dire) meravigliose. Mai come in questo caso Pablo Ferreirós avrebbe ragione, se facessimo combaciare la sua frase "La forza della catena si misura dall'anello più debole" all'album in questione. Anche nei colpi di frusta impazziti di "Whip", o nelle litaniche "Sin Rumbo" e "Miel" c'è tutta la meraviglia di una poetica sonora personale, fieramente incoerente e libera dai dettami soffocanti di un secolo troppo spesso sprovvisto di fantasia libertina. Male che vada, Arca è sempre una garanzia.

  • 9/10
    - 9/10
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