“Ecco quello che siamo tutti insieme: umanità”
Sono le parole gridate dalla voce emozionata e fiera di Simayai Susan Muteleu, Principessa Masai incaricata di presentare i gruppi etnici che si succedono sul palco durante l’ultima serata dei quindici giorni di festa, conferenze e concerti dedicati alle popolazioni indigene della Terra. Si chiama “Lo spirito del Pianeta”, il festival ideato da Ivano Carcamo ormai molto tempo fa e giunto all’epilogo dell’edizione duemiladiciassette donando, come sempre, il solito miscuglio di cultura, divertimento e impegno sociale.
È un polo fieristico meraviglioso, quello che accoglie i visitatori: il Moai, fatto costruire l’anno scorso in onore delle tribù dell’Isola di Pasqua, sovrasta splendidamente l’ingresso. L’affluenza è consistente, ma non pressante, e l’aria che si respira è quella di una gioia palpitante di condivisione che in ben poche altre occasioni si ha il piacere di sentire. Metafora che si riscatta anche nella realtà, perché l’aria vera e propria odora di incensi fatti a mano, saponi al burro di karité, pellame di qualità. E’ difficile comprendere cosa sia in grado di offrire, come realtà d’intrattenimento, il festival di Chiuduno, in provincia di Bergamo. Complesso perché l’offerta è così sconfinata e l’ingresso da sempre gratuito, un paradosso che appare tale solamente agli occhi sciocchi di chi non sa a cosa sta per andare incontro una volta fatto l’ingresso nel festival.
Nella serata conclusiva di ieri sera, domenica 11 giugno, sul palco principale della manifestazione il pubblico ha potuto assistere alla più grande e primordiale di tutte le magie: la fratellanza tra popoli, il rispetto ancestrale talmente radicato tra culture differenti da diventare gioia di condivisione, voglia di creare assieme. Accade questo e molto altro: sul palco si alternano l’affabile aborigeno Rhys Charles Waite con il suo magnetico Didgeridoo e il folklore buryato proveniente dalla Russia, gli Tsimshian dell’Alaska, con le loro maschere monumentali e un po’ spaventose con i vibranti Aztechi messicani, alle prese con una scenografica danza attorno al fuoco (spento con la faccia, le gambe, le braccia, senz’alcun timore!).
Le culture sono moltissime, parliamo di quindici gruppi provenienti da ogni polo geografico della Terra e l’occasione di musica si risveglia sempre da una percussione improvvisa, atavica, sedimentata nel dna collettivo di tutta una specie impegnata troppo spessa a guerreggiare sé stessa. La tradizione, nel finale pirotecnico, passa persino dagli U.so, gruppo di percussionisti coreani che lascia letteralmente il pubblico con la mascella spalancata. Stupore che dura troppo poco, perché subito sfilano dalle retrovie del palco tutti gli altri protagonisti del festival e cominciano a suonare come invasati un ritmo che si snoda e si ricompone, accelera e coinvolge gli spettatori come in un rituale ipnotico, come in un incantesimo in cui sentirsi pienamente invasati di amore per il prossimo.
“Ecco quello che siamo tutti assieme: umanità”, ripete Simayai. Mi guardo attorno, respiro a pieni polmoni. Le luci disegnano geometrie impazzite che rimbalzano sui tamburi fatti con pelle di capra dei Masai per rifrangersi sui copricapi delle popolazioni Maya. In parte a me una signora anziana, con una lunga coda canuta e una camicetta sbottonata arancione, tiene il ritmo con le mani illividite e non riesce e non vuole proprio smettere. Alla mia sinistra, dallo stand dei bonghi, qualcuno ha cominciato a battere energicamente i palmi delle mani sulla superficie degli strumenti. Sotto il palco il pubblico attento e seduto si alza in piedi e comincia a ballare. Saltellano, esultano, applaudono, forse nemmeno loro sanno bene cosa fare. Nemmeno io so cosa fare, l’incanto mi pervade e una lacrima mi scende. Siamo proprio noi, sì, lo Spirito del Pianeta. Questo Pianeta che, qualora imparassimo a viverlo come in una famiglia, avremmo occasione di salvare, amare, rispettare. Non è troppo tardi, non finché queste occasioni continueranno a farci pensare che è questa, l’unica specie possibile in cui vivere.
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