Sesto album in studio per Zola Jesus, “Okovi”, a tre anni da “Taiga” (Mute Records), il disco rientra tra le fila dell’etichetta degli esordi dell’artista russo-statunitense, la Sacred Bones Records. Simile ai precedenti “Conatus” (2011) e all’Ep del 2010 “Stridulum” (le copertine sono quasi identiche), l’ultima fatica della cantante rielabora le sonorità degli esordi mescolandole con la tecnica eloquente appresa negli ultimi della carriera. Risultando poeticamente brutale. Si inizia con “Doma”, che si apre a echi bulgari, densi e corali, brano crudo nella sua struttura fasciante, un esorcismo spiraliforme per lasciare che la sofferenza si innalzi e si elevi dal corpo, abbandonandolo e spezzando quelle insidiose catene che sono proprio il titolo – e il cuore maledetto – dell'album. La voce è oscura, involuta in un'eco venerabile che commuove. Ma l’immaterialità eterea svanisce prestissimo: con “Exhumed” l’atmosfera viene inacidita, inacerbendo il suono e rendendolo gotico nelle nuance inintelligibili e ambigue, care ai Paramore più sperimentali e agli Evanescence nelle loro migliori intenzioni. Il punto di fuga è una magnifica assenza di preminenza di un elemento sull'altro: musica e testi s'impegnano nell'intenzione di spaginare la teatralità del vivere, portandone in superficie – come setaccio implacabile – tutti i detriti catartici che deteriorano e soffocano.Pur piacendo e sbaragliando l'animo dell'ascoltatore, le melodie non sono certo una "dolcezza per l'animo e refrigerio per il corpo": si parla di suicidio, mai velato, mai letterale, nella meravigliosa “Soak”, (Take me to the water /I am not free but I am sorry, I am stone /You should know I would never let you down/ I would never let you drown,) ricorda Virginia Woolf, quell'epilogo che sollevava la pelle allo stesso modo. In “Ash to bone”, invece, si assiste alla scomposizione e alla ripresa (quasi sinonimi del connubio ‘morte –rinascita’) , un mosaico di sentimenti che ritrovano nella corrente post-ambient un espressionismo lirico, tormentoso, che si riallaccia all'ariosa "Witness", un "monstrum" di pateticità, così intensa, ad allontanare il coltello dalle ferite voraci e irreparabili dell'anima. Strizza l'occhio a "Stonemilker" di Björk e all' "Aleppo" consolatoria di Kàryyn, ma con immensa personalità. La sua emancipazione è sclapitante, in bilico tra Grouper e Brian Eno (“NMO”). E lo dimostrano per l’ennesima volta “Siphon”, nella quale ritorna il tema onnipresente del trauma, dei demoni interiori (altro che la festosa Lenny!) e “Veka”, impetuosa a sfaldare l’involucro deforme e raccapricciante del dolore, esplorato arditamente. A un certo punto sembra che Grimes riecheggi nell’aria, ma si avverte anche la Kate Bush di “Leave it open”, o la Lydia Lunch più imprendibile. Lo scenario, transitando di arte in arte, è quello dei corvi di Maruyama Ōkyo: una desolazione perfettamente asimmetrica. Ascoltando "Wiseblood" possiamo tranquillamente affermare che Khalil Gibran aveva torto, nell'affermare che il musicista può cantare solamente la melodia senza darci anche l'orecchio che fissa il ritmo, né l'eco che rimanda il suono: Zola Jesus dona tutta l'irrepetibilità dell'esperienza di un'estasi dolorosa, di un travaglio emotivo che al termine della corsa ci ha resi più completi. Durante le feste di Attis, associate ai misteri di Cibele, il sacerdote, seguito dalla folla, si mutilava per far sprizzare il suo sangue. Zola Jesus, secoli dopo, ripercorre la stessa via solenne offrendo la sua Arte come via Maestra per la liberazione. E noi, scossi e sconvolti dal suo talento, ci inchiniamo. Ascoltaci, o Zola.
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