Un’epifania di molto anticipata, quella che si è verificata lo scorso 27 ottobre, quando Karin Dreijer, membro del duo svedeseThe Knife, ha annunciato a sorpresa l’uscita del nuovo album firmato col nome d’arte Fever Ray. Un colpo di scena che segue a distanza di otto anni l’omonimo album “Fever Ray”, nel 2009 e precede l’uscita fisica (al momento è ancora in streaming), che sarà il 23 febbraio e avverrà sotto l’egida dell’etichetta Mute/Rabid.
Il progetto ha alle spalle un team di produttori di grandi capacità come Paula Temple, NÍDIA, Peder Mannerfelt, Tami T, Deena Abdelwahed e Johannes Berglund ed è stato in gran parte registrato a Stoccolma. Halo-Halo tra uscite discografiche interessanti, “Plunge” si distingue subito dal predecessore per la vicinanza ravvisabile con i lavori appartenenti ai The Knife. In particolar modo, l’apripista “Wanna sip” ricorda tremendamente “Networking” tratta dal geniale “Shaking the habitual” del duo. Anche in quest’occasione, onore al merito, la barotinia della sua voce stridula e inerpicante è sorella del caratteraccio di Yolandi Visser. Una vicinanza che accosta le due performer anche per la maggiore apertura dei loro stilemi musicali al grande pubblico dell'ultimo periodo. Fermo restando che Karin rimane una battelliera indomita di melodie insospettabili, begum di atmosfere imponderabili accorpabili alla benzedrina più efficace in barba a un’indomabile birbantaggine creativa, non si può negare che l’album in questione, più aperto e maneggevole, si lasci ascoltare con meno ostilità rispetto al precedente.
Certamente non si è di fronte all’ultimo disco di Adele, e gli undici brani dell’LP sono una bow window che invita ad entrare soltanto i più impavidi. Ma dribblando i fastidi e le paure personali, il materiale che rimane da indagare è decisamente interessante. “Failing” è un buon punto di contatto con Lotic e Daniel Lopatin, ad esempio, un angoscioso calembur in musica che ruba la caligine dall'irreparabilità della realtà per tramutarla in musica. Il tema della sporcizia si dilata tracotante ad evidenziare lividi e come con le macchie di Rorschach possiamo intravedere tanto il racconto di situazioni intime e dolorose quanto la voglia dell'artista di generalizzare mali universali. “IDK about you”è un delizioso hi-hat giunglesco che si fa largo canoista nei timpani come ossessione intenzionata a rimanere. Lo guardassimo anche dalla prospettiva di una traccia hardcore in slow-motion, la sua bellezza resterebbe invariata.
“This country” è invece un biasimo piagato contro la bigotteria di una nazione che sogna l'omologazione di massa per estirpare ogni pericolo di individualità. Il sesso ritorna serpentino a ribadire l'importanza di affermare il genere della propria personalità ancor prima di quello di nascita. Perché indubbiamente il biotipo immaginifico della cantante ruota nuovamente intorno a un macabro excursus sulla sessualità e sul genere umano, sempre pretestuosi per affinare l'indagine su angosce e sregolatezze del nostro tempo con la lente d’ingrandimento di chi percepisce con maggiore profondità.
Non tutto fila liscio come l’olio, e qualche buca sul tracciato si avverte eccome: “Musn’t Hurry” è una boiserie elettronica che scivola via senza rimanere troppo impressa, come una sorta di bloccasterzo che immobilizza la carrozzeria proprio quando questa vorrebbe accendersi e sfrecciare liberamente. “Red trails”, allo stesso modo, punta la carta rafferma dell’esotismo scivolando sulla buccia di banana di un pop-fusion di casa Gwen Stefani o Sia di “Never give up”. Ma con “A part of us” la situazione viene ripresa in mano, doppiando la grinta sprezzante delle Icona Pop. Il pericolo che stavamo per provare, ossia il terrore che stesse brancicando per comprendere dove andare, è presto risolto: si prosegue, beat dopo beat, generando un meraviglioso quadrato di sonorità trafelate e convincenti. Nel titolo dell’album, dopotutto – “Plunge” – c’è la chiave che sblocca il lucchetto: “Plunge” in lingua inglese indica sia un tuffo che una caduta precipitosa e a diversificare i due verbi c’è solo un gigantesco buttafuori chiamato volontà. La volontà di rimettersi in gioco, di pubblicare un singolo – “To the moon and back” – accompagnato da un video di dubbio gusto. La volontà, infine, anche di eguagliare la carambola gotica messa a segno dal geniale Benoît Charest nella colonna sonora di "Belleville Rendez-Vous". La scelta, per farla breve, di abbracciare l’arte dovunque essa trascini.
Tracklist:
01 Wanna Sip
02 Musn’t Hurry
03 A Part of Us
04 Falling
05 IDK About You
06 This Country
07 Plunge
08 To the Moon and Back
09 Red Trails
10 An Itch
11 Mama’s Hand
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