Che vi passassero un cammello o una gomena, la cruna dell’ago rappresentava la strettoia più limitante per tutti coloro che avevano in cuore il passaggio da una parte all’altra, dal “qui” restrittivo e asfissiante all’”aldilà” ad ampio respiro. Il nuovo album degli Anhima, prodotto da Fabrizio Simoncioni e Fabrizio Vanni, esplora il valico angusto in cui la musica e i riferimenti artistici si mescolano per dare vita a un album che resta in piedi per bellezza e credibilità. Un disco, quello di Daniele Tarchiani e soci, audace ma non spavaldo, preciso ma non tedioso. Una fatica che partendo dai termitai urbanistici visitati e impressi sulla pelle (tanto a Bombay quanto a Firenze) elabora una biopsia dei tempi moderni con impegno e lucidità. Anticipato dal singolo “Tutto il mondo è paese”, la quinta tappa discografica degli ex Dharma si contraddistingue per nitidezza e organicità: da “Accogli il dolore” a “Senza guanti” il suono marcia compatto nel segno di testualità preponderanti e piacevoli, intriso di una filosofia ragionata che traccia una linea di incontro tra Gesù di Nazaret e la filosofia orientale (la voglia di rallentare, di scolpire parole che conservino un senso, l’accogliere le sofferenze e sublimarle). Una volta ascoltate le dieci tracce, nella mente del fruitore si accampa un’idea predominante: quando la premura del rock non è quella di avvinazzare il look con sciabolate di glamour ma è piuttosto quella di insaporire un sound moderno con urgenze espressive, allora il piccolo miracolo si compie, la magia si scatena. E contrario all’indifferenza (quella di “Umanoide web”, del grande Lamberto Piccini), l’essere “solo un pensiero, un’immagine” fa la differenza tra l’essere musicisti e aspiranti manichini nelle mani dell’industria discografica. Superfluo a dirsi, gli Anhima appartengono decisamente alla prima categoria.
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