Pubblicato il 30 novembre dello scorso anno, aggiornato il 3 giugno con l’aggiunta di un inedito, “Albero”, “Mainstream” (Bomba Dischi) è il secondo capitolo ufficiale della carriera di Calcutta, compositore italiano all’anagrafe Edoardo D’Erme, per molti rivelazione dell’anno. Un disco che ricalca il filone de I Cani e de Il Cile nel creare album sempre più scollegati nei concetti e disarticolati nei suoni, tenuti insieme solamente da un tentativo piuttosto fastidioso di sembrare schietti sino al midollo risultando invece pretenziosi, vanesi, in cui i testi diventano diapositive che si disperdono ancora prima di presentarsi minimamente nitide. Così è anche questo “Mainstream”, quest’emblema di una voce che si presenta orgogliosa della sua irregolarità (nell’apripista “Gaetano”, più che altrove), tronfia e troppo figlia dei giochi linguistici un po’ demodé già sul nascere del Rino (Gaetano, per l’appunto) figlio della leggenda. Gli squarci di realtà paventati sono fotografati in un lampo, ma perennemente sconnessi, immortalati con la celerità di un tweet o di una rima assonante non troppo brillante (i Rom e Youporn, Medjugorje e De Gregori). I guizzi di originalità non sono del tutto assenti: in “Cosa mi manchi a fare” compaiono metafore oneste, che non si sforzano nella loro semplicità (il gelato con il gusto della persona amata), ma il tutto finisce troppo presto per assomigliare ad altro di già sentito (le descrizioni flash dei Verdena, i gorgheggi stilistici e boriosi de Le luci della Centrale Elettrica), piegato alla mercé di una voce che sa di inganno e di cattive intenzioni: quelle di voler sembrare a tutti i costi di nicchia, e dunque di qualità, in un’equazione che è sempre più la bufala ‘new age’ più quotata del secolo. L’unico accenno di onestà proviene da quell’impensabile e sorprendente “Dal verme”, colpo ipossiemico all’ascolto, che si restringe per ampliarsi, in cui finalmente l’autore smette di ricercare frasi ad effetto per concentrarsi su ciò che è suo mestiere: la musica, la grande protagonista che, come cantato in “Milano”, non riesce più a essere credibile. Serve un’istintività che lo sia davvero, non solo di facciata.
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