E’ una notte tiepida, quella che cade ai piedi dell’imponente Mediolanum Forum. Le mezze maniche sono numerose, sfrecciano tra un bagarino e l’altro circonfuse dai neon in colluttazione continua con la serenità che si respira. E’ l’unica data dei Sigur Rós , che tornano a Milano dopo due anni. Stesso luogo, emozione invariata. Anzi, qualora possibile, questa volta l’attesa tiene il passo alla curiosità. Sì, perché i tre islandesi del nostro cuore hanno preparato uno spettacolo in due atti, equipollenti e magici, intrisi di scenografie ipnotiche di luci che ricreano geometrie naturali ad intronare ogni senso.
Con un lieve ritardo – subito perdonato, va detto – di quindici minuti, Orri Páll Dýrason, Georg Hólm e Jónsi appaiono sul paco con la solita, trasognante aria rimessa di chi vive la musica come fosse aria da respirare e non certo il mestiere della propria esistenza. Anche volessimo essere obiettivi, concreti e poco pindarici – specie quando siamo chiamati a riportare le sensazioni respirate durante un evento – peccheremmo di profonda falsità. La parzialità è tutta nel profondo amore che il pubblico, corposo e attentissimo, riversa come onda a una delle band post rock –rivelazione degli ultimi vent’anni. Una realtà che dall’Islanda ha imparato a far mangiare la polvere anche a colossi del genere come i Mogwai (che dal canto loro, non hanno mai nascosto troppo la loro antipatia per la band isolana).
L’attacco spetta a un inedito, che sarà parte del prossimo album, una lettera che rompe il giaccio sferzando il buio proprio come quell’accento acuto che la sovrasta imponente: Á. E’ un brano d’apertura, si sente, che probabilmente nel disco avrà una veste meno malnutrita. Si lascia ascoltare, e con molto stupore, ma ci si rende conto, quando si percepisce l’atto di “Ekki Múkk” (Valtari, 2012), che il jumbo-jet emotivo è irreparabilmente partito, e sta per trasportare tutti in un personale altrove, tanto intimo da sconnettere completamente da ogni altra percezione. Le anime in ascolto fiatano poco, applaudono se devono e solamente alla fine dell’esibizione. L’agglomerazione dei paganti è rapita, lo si legge nei volti rivolti alla band con trasporto messianico. Siamo tutti lì a pendere dalla loro poesia. Alle volte il silenzio carmelitano è così esteso che a guardare il soffitto, anziché neon, sembra di vedere delle costellazioni.
Un piccolo spiraglio nell’attacco immalinconito lo dona Glósóli, traccia radiosa ed esplosiva che proviene dritta dritta dal disco più arioso della band: Takk… (2005, da lì fu estratto anche il brano “Hoppipolla”, il loro successo più famoso in assoluto, in questa serata assente in scaletta). Qualche problema tecnico si avverte, ma la magia non scricchiola e la landa di incredulità continua a protrarsi. In soli tre elementi, gli uomini che vediamo sul palco suonano come fossero un’orchestra numerosa. La batteria è sontuosa, evocativa, la voce di Jònsi un prodigio inspiegabile della natura. Ed è lui l'elemento cardanico che sopravvive a distorsioni, crepitii fiabeschi (irreali? Mentali?), agli assoli di motosega di Kveikur. Il Mediolanum forum diventa un cargo per spingerci come soffioni al vento, le nostre anime fluttuano, tutte, non una di meno: anche chi si abbraccia commosso, chi saltella ammaliato, chi filma incallito, tutti stiamo fluttuando. Il climax micidiale di “E-Bow” impedisce a chiunque di frappore un cellophan tra il cuore e la loro musica, non c’è verso: sfrecciano senza temere alcuna chicane sul loro cammino, che tu stia piangendo o tentando di applaudire più forte delle alterazioni sonore percepite.
A seguire arriva, come naturale continuazione della sesta traccia dell’album “( )” (Untitled), la settima meraviglia, in un concentrato ristretto di quei tredici minuti che accorpati danno ancora più brivido. L’atmosfera è dark, la direzione oramai intrapresa si annusa palesemente, i lineamenti sono oscuri, ma sequestrano l’attenzione come fossero carezze di sirene. Tempo di distendere l’atmosfera con l’incantata “Fljótavík” che il clima torna a rannuvolarsi con due nuove canzoni: “Niður” e “Varða”. Due canzoni straordinarie, neanche a dirlo, ma sulla seconda vale la pena spendere qualche parola in più. Nel modus operandi dei Sigur, ormai, sappiamo riconoscere il salto oltre la siepe, quando arriva. Quel brano tra i brani che è destinato a diventare un altro pegaso speciale da portare sempre nel repertorio per impreziosire ogni futura tappa. Le atmosfere raggomitolate in una trama di pianoforte dolce e struggente reggono la trama a una canzone che chiude trionfalmente il primo atto, ma fa anche scendere tante lacrime come se stessero brillantemente eseguendo un verticale con doppio salto mortale indietro raggruppato alle Olimpiadi. Una mestizia che si sbraccia nell’aria a dare il cinque all’apripista del secondo atto, la disturbante “Óveður”, ancora più devastante dal vivo che nel video, quando mancano gli equalizzatori ad ammorbidire l’impatto sonoro. Assestato il colpo alla cassa toracica, con vena sadica ed emozionata, scelgono di suonare una tripletta che fa ricordare, nell’esatto momento in cui arriva l’onda sul led a cristallizzare la tensione, che l' estasi del vivere è possibile anche senza l’uso di psicotropi. E’ da sempre l’ingrato compito dei poeti. Con “Sæglópur” –“Ný Batterí” –“Vaka” la “Rosa della Vittoria” (questo il significato enigmatico della band islandese) ribadisce che la tristezza non esiste in natura affinché qualcuno dal nulla porga un capestro per lasciare che un suo simile oscilli a penzoloni da qualche trave. Esiste perché, così come l'amore e la rabbia, insegna a indagare la nostra emotività. A comprenderla meglio, a preservarla da ogni probabile urto. E magari, dopo averla comprese meglio, a smetterla di dichiararle ogni forma di guerra. Preparato il campo con la livorosa “Kveikur”, il finale è un classico per chi è fan da tempo di questi eroi del suono: va in scena l’esplosiva Popplagið. Un ritorno concentrico di rabbia e voglia di evadere che si avviluppa così insistentemente sulla pelle da frantumarsi come bomba atomica e lasciare uscire ogni esasperazione dal proprio corpo. Ci si sente vuoti, alla fine. Sazi e vuoti, nello stesso identico istante. “These days” di Nico in filodiffusione ci risveglia dal sogno e mai come in questa occasione possiamo essere così grati che questo viaggio onirico sia stato così vero, carnale, debilitante.
Scaletta del concerto:
Primo atto
Á
Ekki Múkk
Glósóli
E-Bow
Dauðalagið
Fljótavík
Niður
Varða
Secondo atto
Óveður
Sæglópur
Ný Batterí
Vaka
Festival
Kveikur
Popplagið
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