Recensione: “Everything’s not lost” – Fixes

Non è facile tuffarsi in un mondo musicale, quello del Pop, in cui molto è stato già detto, e con le aspettative dei numeri che, a differenza di molti altri stili musicali, il genere vorrebbe.

Forse la difficoltà maggiore che avvertiamo in questo album dei Fixes è questa: una smania eccessiva di allineamento, per percorrere strade sicure e rodate a livello internazionale, lasciando da parte un po’ dell’unicità che si dovrebbe sempre pretendere da se stessi.

Everything’s not lost è tutto sommato un buon disco, adeguatamente costruito e strutturato alla bisogna. Le chitarre hanno un ruolo fondamentale, in primo piano rispetto al resto dell’organico strumentale e rendono al suono la profondità che serve.

In Future never lies si riesce chiaramente a notare la discontinuità compositiva (appannaggio quasi esclusivo del frontman Andrea Allocca e qui invece coadiuvato dal batterista Bob Baruffaldi) in favore di un andamento più funk, che smorza un po’ i toni più monotematici dei primi brani.

Ci sentiamo di dire che, a nostro avviso, il punto debole dell’intero album risulta il cantato, e non certo per doti tecniche, indiscutibili, ma per scelta e contesto. Di fatto, le canzoni più interessanti risultano essere quelle in cui il cantato si mantiene più minimale, più intimista, piuttosto che quando si concede voli pindarici nelle melodie più melense. Questo succede in The sound of a broken heart, nel singolo Don’t give up in cui il cantato si prende meno sul serio acquistando di contro molta più credibilità, o nella strofa di Sorry, in cui sostiene lo sviluppo del brano in modo convincente.

Questa analisi risulta più evidente su Highlands, in cui la composizione è estremamente interessante, con echi che ci riportano addirittura a qualcosa dei Beatles o dei Velvet Underground, ma in cui il cantato non riesce a rispondere bene al minimalismo intenso della sezione strumentale.

Il concept dell’addio è estremamente interessante nell’idea in sè, e forse, nei testi, soffre un po’ di una scelta di un inglese che risulta buono ma evidentemente non autentico.

Il tentativo, piuttosto esplicito a quel punto, dell’ultimo brano Give me your eyes, di ricalcare sonorità e scelte compositive tipiche dei Coldplay, a nostro modo di vedere, non è felicissimo, perchè ci riporta alla nostra analisi iniziale, e ad una esortazione ai Fixes: quella di trovare una strada nuova e fresca per mettere a frutto l’innegabile talento che mostrano nella scrittura.

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