L’avevamo lasciata due anni fa con l’incredibile “Abbi cura di te”, disco esemplare di un talento prorompente destinato a un’esplosione ancora più decisiva, e la ritroviamo ora con “Nel caos di stanze stupefacenti”(Carosello Records), in uscita il 7 Aprile. Formula collaudata, quella di Levante: bassi fumantini, percussioni incalzanti e voce straordinariamente autorevole e possente. Con la riscoperta dei timpani e del caos, però, Claudia Lagona ha deciso di calarsi ancora più a fondo del suo sconfinato talento e del suo animo inquieto, dando vita al più incattivito dei suoi episodi discografici, probabilmente anche la naturale evoluzione di una trama narrativa iniziata con il furente “Manuale distruzione”(INRI). Disordine organizzato che inizia, come il migliore scenario d’irrequietudine che si rispetti, con una proclamazione dell’artista (“Caos, preludio): il caos abita in lei percettibile agli sguardi che leggono la sua fronte intercettando il forte trambusto emotivo che è codice creativo e genetico. E le note delicate, placide davanti al timbro sericeo, subito cedono il passo alla stagione del rumore,con il brano “1996”. Il suono si apre, il rock spalleggia l’elettronica, cori di bambini, testualità borderline con il rap (molti i giochi di parole, le assonanze, le rime alternate) e s’intravede la traiettoria di un album simile a un compasso che riproduce indissociabile il nuovo percorso dell'artista -più impaziente e leonina – racchiuso in suoni più decisi e combattivi, in testi aguzzi e mai concilianti. Il furore siciliano della voce di “Alfonso” sposa un pop grintoso che già si era scorto con il singolo “Non me ne frega niente”, nel quale la collera era riversata addosso all’atteggiamento social dell’indignazione a comando tipico dei nostri tempi. Furia che non ha timore di abbracciare l’impegno sociale, nell’incantevole “Gesù Cristo sono io”, che parla di violenza ai danni delle donne da una prospettiva finalmente ribaltata: la cantante non si genuflette all’idea di un sesso debole e libera la voce, magnificamente “impudente come un corvo”. Ma quando l’inquietudine ha dalla sua un estro artistico sempre più conclamato, lo step successivo è di concedere all’animo un danza tarantolata. Ecco quindi che in questa parcellizzazione emotiva, trova spazio anche un capolavoro dell’ironia come “Pezzo di me”, firmato Max Gazzé , che scavalcato il rischio degenerativo di scorrere senza appendersi all’orecchio, rivela sfavillante cosa significhi avere dalla propria una scrittura unica e orgogliosamente distinguibile. Penna che arriva persino a scrivere un capolavoro come “Santa Rosalia”, filastrocca che tocca il tema dell’omosessualità dando risonanza alle mille sfumature della voce, vicina alle gradazioni brumose di Natasha Khan e di Florence Welch. Levante, c’è poco da fare, somiglia sempre più a Khonsu, ‘colui che attraversa il cielo in barca’: solo così si può “stare in equilibrio dentro la realtà”. E d’altra parte, se è vero che il caos racchiude i suoi opposti, nel disco ritroviamo l’anagrafe e il nome d’arte, la ragazza claudicante di “Sentivo le ali” (gemella di “Le margherite sono salve”?) e la ragazzaccia de “Le mille me”, che – come in un frattale – punta verso sé la lente di ingrandimento per raccontare, per forza di cose, della vita di sette miliardi di persone.
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