Recensione: “Prisoner 709” – Caparezza

 

Ci eravamo tanto schockati con il precedente “Museica”, l’album più ambizioso di Caparezza da anni a questa parte, che non potevamo aspettarci un ritorno in forma così smagliante da parte del rapper di Molfetta. Una riapparizione sulle scene che porta il nome di “Prisoner 709” (Universal Music Italia) , frutto di una profonda crisi personale del cantante tradotta in 16 brani straordinari che riconfermano la genialità di uno degli autori italiani più talentuosi di sempre. Registrato tra Molfetta e Los Angeles in compagnia di Chris-Lorde-Alge, il concept album affida l’abbrivo al featuring con John de Leo, brano-abiura di se stesso, sempre volto a cambiare, ad accanirsi contro il suo malessere, che prende il titolo (“Prosopagnosia”) dal deficit percettivo acquisito o congenito del sistema nervoso centrale che impedisce ai soggetti che ne vengono colpiti di riconoscere i tratti di insieme dei volti delle persone.

La sua visione periferica ne trae svantaggio, diviene imperfetta, ma la sua personalità non è mai abulica e canta anche dei drammi interiori senz’alcun filtro. Il filone metal e industrial viene lanciato come un autoarticolato libero sulla carreggiata. La metafora della prigione ha infiniti rimandi a specchio: un’acciaccatura che attraversa tematiche personali, intime, private – per la prima volte – “politiche” soltanto di riflesso. La rabbia è molta, e si serve del rap come di acquaragia, basandosi molto più su melodie ben riuscite che supporterebbero ugualmente qualsiasi altra scelta stilistica (un pop più leggero o una lirica più teatrale, e Michele saprebbe dominare entrambe le scelte!). La mente è esplorata in ogni suo aspetto (“Forever young”, con la DMC), la conoscenza diviene al solito arma di difesa e profondo analgesico. Caparezza oscilla tra le polarità del 7 e del 9, in contrapposizione e poi sinteticamente superate, rimanendo fuori da ogni schema e paradossalmente sempre sul pezzo, con le sue strofe impressionanti sempre à la page. Il mood è dark, la veste è più scura, e se ne “La caduta di Atlante” addensa cori di bambini e testualità aerobiche, in “Confusianesimo” mr Salvemini, dal suo avamposto culturale, parla delle mescolanze new age contraddittorie  e ricorre a uno scherno antifrastico che è da sempre cifra stilistica per raccontare il nuovo credo di chi non avendone alcuno ha bisogno di averne un po' di tutti. 

L'affanno spirituale personale diventa come sempre un'occasione per deridere  i segugi degli Ayatollah dietro l'angolo (con coro finale di avanspettacolo). Attraversando il buio delle proprie interiorità, i demoni che si incontrano sono molti e hanno tutti un volto. "Il testo che avrei voluto scrivere" è il bequàdro del disco: tra i migliori del pugliese, si fa beffe in quasi cinque minuti delle aspettative di haters, fan stalkeranti, stampa ufficiale e se stesso. In “Una chiave”, invece, si volta indietro per rivolgersi a se stesso e inspirarsi da solo, farsi forza, reagire.

Nonostante stia in alto con pochi altri al suo livello, non si lascia mai andare a bizantismi o a stoccate moraliste, nemmeno quando abbandona l'ironia e diventa più pungente. La musica è il suo spettro ma anche il suo barbiturico. E più di tutto lo dimostra il brano “Larsen”, in cui descrive la sofferenza psicologia generata dalla scoperta della malattia di cui è affetto – l’acufene, un costante fischio all’orecchio – afferrandoci per il collo e spingendoci “fino alla fine” nella sua bidonville mentale, con un assolo di tromba finale spettacolare. Certamente, se queste sono le premesse, a primo ascolto l’album potrebbe apparire un bric à brac incazzoso, ma è proprio attraverso gli spigolosi rimandi lettarari pregni di cultura che comprendiamo che siamo di fronte a una crisi sviscerata con il guizzo olimpico di eccellere. Sotto la lente di ingrandimento dell’anima, chiamati a processo, ci sono anche gli italiani di comodo (“Migliora la tua memoria con un click”, feat Max Gazzé) e   il fanatismo cibernetico in “L’infinito” (“Questo non è il pianeta, è human simulator!”). Il più potente dei “j’accuse”, però, è il geniale “L’uomo che premette”, schiaffo morale dato a chi, dal basso, fomenta un odio di cui non raccoglie mai la responsabilità. Il suo citazionismo impazzito invia il cablogramma all'east coast rap senza aver alcun timore di sfigurare in termini di credibilità. E in questo cancan creativo, zeppo di testi da consegnare alle future antologie scolastiche (“Autoipnotica”) , il capellone di “Fuori dal tunnel” ci consegna la sua cartella musicale dandoci appuntamento dal vivo. Fuori dalla prigione, dal nero pegola, ci sarà ancora spazio per tanta luce e tanto divertimento. 

Tracklist

Prosopagnosia (Il reato – Michele o Caparezza) (con John De Leo) – 3:45
Prisoner 709 (La pena – Compact o streaming) – 3:57
La caduta di Atlante (Il peso – Sopruso o giustizia) – 4:26
Forever Jung (Lo psicologo – Guarire o ammalarsi) (con DMC) – 4:21 (testo: Michele Salvemini, Darryl Matthews McDaniels)
Confusianesimo (Il conforto – Ragione o religione) – 4:27
Il testo che avrei voluto scrivere (La lettera – Romanzo o biografia) – 4:32
Una chiave (Il colloquio – Aprirsi o chiudersi) – 4:05
Ti fa stare bene (L'ora d'aria – Frivolo o impegnato) – 4:10
Migliora la tua memoria con un click (Il flashback – Ricorda o dimentica) (con Max Gazzè) – 4:45 (testo: Michele Salvemini, Max Gazzè)
Larsen (La tortura – Perdono o punizione) – 4:20
Sogno di potere (La rivolta – Servire o comandare) – 4:02
L'uomo che premette (La guardia – Innocuo o criminale) – 3:20
Minimoog (L'infermeria – Graffio o cicatrice) (con John De Leo) – 1:45
L'infinto (La finestra – Persone o programmi) – 4:15
Autoipnotica (L'evasione – Fuggire o ritornare) – 5:10
Prosopagno sia! (La latitanza – Libertà o prigionia) – 4:21

 

  • 9/10
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