A tre anni dal precedente “Costellazioni”, il ritorno de Le luci della centrale elettrica è avvenuto con “Terra”(Cara catastrofe), nuovo album prodotto da Vasco Brondi e da Federico Dragogna. Un ritorno che dalla copertina, che riprende una fotografia dell’opera di Land art “Seven Magic Mountains” dell’artista svizzero Ugo Rondinone, rappresenta la Terra come spazio immaginario, babilonico, e proprio il pianeta “pieno d’acqua” e le sue contraddizioni sono il fulcro dei dieci brani proposti. Il nome della band, oramai, come avorio è sinonimo di longevità nel duro suolo italiano refrattario all'innovazione e all'indie più maldestro, ma la loro fama, parafrasando una citazione di Holmes, fa meno rumore di un cannone, ma l'eco è più lunga e nel loro caso persino più ingombrante: c'è qualcosa in più, ancora da dare, da "Per ora noi la chiameremo felicità" in poi? Questo era il dubbio prima dell’ascolto.
Dubbio confermato da tracce come l’apripista “A forma di fulmine”, distesa e sacrale ma eccessivamente roca nei passaggi cantati oppure da “Chakra”, immodesta, boriosa e un tantino soporifera, non fosse per quel violoncello che la salva in corner. Titubanze che tuttavia svaniscono quando si entra con attenzione nel tessuto epiteliale del progetto. La parte musicale, nella struttura ritmica e nei guizzi multiculturali, è di gran lunga superiore alle testualità, anzi: è proprio quando i brani sono scarnificati di un’apparente superbia, che le canzoni tornano alla loro forma smagliante, non più soltanto tapis-roulant di un’eccessiva verbosità ma anche canzoni canticchiabili, ballabili, orecchiabili.
Ciò che un tempo era misterico è in quest’occasione palesato: Vasco & Co cantano degli ultimi e di quelli che non sono arrivati mai primi, in cui la voce si fa largo tra i laceramenti e gli affanni per riportare un po' di armonia. Per farlo, la band sembra aver trovato una chiave di lettura differente e di essersi affidata al pop come un cadavere degli Indiani d'America agli avvoltoi per una liberazione dell'anima. I messaggi racchiusi nei piccoli capolavori presenti all’interno del disco (“Qui”, “Iperconnessi”, “Viaggi disorganizzati”, “Coprifuoco”) sembrano farsi largo in un mondo che si scuote tra “grida di tifoserie e di muezzin” per rispondere al macabro interrogativo del disco: moltitudine o solitudine? Nell’incertezza di una lettura corretta del presente, la musica rimane un Avatara straordinario per tentare di comprendere i contrasti di questi tempi. Grazie per avercelo ricordato.
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