A quattro anni dal folgorante disco d’esordio “If you wait”, il trio britannico London Grammar è tornato con un nuovo capitolo, dal titolo “Truth is a beautiful thing”. La verità è una cosa meravigliosa. Un titolo emblematico, che dichiara l’onestà degli intenti e del contenuto. Un contenuto che, diciamolo subito, non lascia sorprese o ronzii nelle orecchie. Forse una percentuale di responsabilità è da affidarsi alla collaborazione con Paul Epworth e Greg Kurstin, già collaboratori di Adele nel claudicante “25”, forse in una pressione del pubblico in un disco che eguagliasse la potenza evocativa del predecessore. O forse forse, più semplicemente, in una mancanza di idee vincenti quali erano state quelle alla base di capolavori come “Strong”, “Metal and dust”, “Wasting my young years”. Ebbene sì: le idee latitano, il suono si impasta, il disco non sembra mai dover passare e quando finalmente termina l’ascoltatore si domanda cosa altro avrebbe potuto fare, in quel lasso di tempo, una sensazione che mai si sarebbe potuto nemmeno pensare di accostare ai London Grammar. Ma che è successo al polistrumentista Dot Major e al chitarrista Dan Rothman? Tocca citare loro perché Hannah Reid è la solita voce inafferrabile, tra le più belle apparse mai su questo pianeta. Le premesse ci sono, il talento è rodato e non si nega. Era infatti piaciuto tantissimo il primo singolo, quella “Rooting for you meravigliosa, uno chalet dell'anima, un oasi in mezzo alla violenza e agli schiamazzi in cui la scelta era ricaduta su una voce scarnificata di ogni ridondanza e diretta al cuore, più di tutto, un talento straordinario. Bella era stata anche “Big picture”, sfumata quel tanto che bastava per non dispiacere affatto, e nemmeno all’interno del disco mancano le occasioni per ritrovare il giovane genio anglosassone poggiato su un formidabile e benamato treppiede. “Wild eyed”, per esempio, con la sua apertura agli archi e la sua deliziosa veste folk. E quel sottofondo gracile, esile, così dannatamente innocente. Lì c’è tutto il marchio London Grammar, in quella spinta ascensionale prepotentemente dark e prepotentemente pop. C’è ancora l’occasione per salvare due tracce, in assoluto: l’angelica e trascendentale “Hell to liars”, nella quale i beat intervengono a creare corridoio illuminati dal timbro della frontman e “What a day”, vero plot twisting del disco, in cui la voce viene utilizzata come ugola bulgara che attira l’ignaro ascoltatore nei campi del brivido. La domanda, tuttavia, sorge di getto: quanto dovevamo aspettare per un colpo di scena così? No, perché in tutto questo elogio (dovuto, per carità) alla band londinese, non si possono tralasciare le numerose, troppe, pecche del progetto. L’aver accettato l’etichetta “indie”, per esempio, e di esservi adagiati senza pietà sul gradino delle atmosfere rilassate che non dicono niente, in pieno stile “Chillout”. Lo provano, non a caso, brani come “Everyone else”, con i suoi risvolti sonori innecessari, la scialba “Non-believer”, la sbiancata “”Who am I”, l’anonima “Leave the war”, smorto b-side indegno della band. Si è di fronte, e piange il cuore a dirlo, a una buona idea di base sciacquata dall’esigenza riempitiva di terminare un progetto. Probabilmente, e quest’eventualità rattrista perché cozza con lo spirito puro dei tre, le esigenze di terminare un disco hanno soffocato la furia e la forza della loro innegabile inventiva. E quel che ne è uscito è – tappiamoci un attimo gli occhi – un disco mediocre e privo di identità precisa con qualche ottima traccia all'interno. Rivolgendosi per un attimo all’icnomanzia, possiamo però prevedere che il prossimo album sarà o un capolavoro indiscusso (fingers crossed!) o un best of per tappare il flop delle vendite in arrivo.
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