Siglato Universal Music Group, il dodicesimo album in studio di Zucchero, “Black cat” è un disco che trae ispirazione dal volto più nero dell’America: le piantagioni pullulanti di schiavi, l’amuleto del gatto nero nel taschino, il gospel, gli amori clandestini. Un episodio che si erige nell’immediato nella sua forza, composta da produttori d’eccellenza come T Bone Burnett, Don Was, Brendan O’ Brian e collaborazioni galattiche con la chitarra di Mark Knopfler e la voce di Bono degli U2. Una prova in studio che tenta con tutti gli assi nella manica di ricreare la magia dei compianti “Oro, incenso e birra” e “Spirito DiVino” senza riuscire a eguagliarne l’incantesimo. La southland decantata vorrebbe sposare una voglia di riscatto universale, pasticciata qua e là con riferimenti ora ai partigiani (il singolo scioglilingua, “Partigiano reggiano”), ora a testualità approssimative (“Abiti qua/ sotto la pelle/ oltre le stelle/ nell’universo” di “Love again”), ma il rimescolio della minestra è sin troppo evidente per sembrare autentico. Se infatti in qualche occasione il brivido blues riesce ad essere provocato (nell’ammirevole atmosfera corale di “Hey Lord”, ad esempio), in altre circostanze i brani sembrano già essere stati metabolizzati altrove: “Ci si arrende” ricorda la colonna sonora di “Spirit cavallo selvaggio”, “L’anno dell’amore” fa il verso a “Il mare impetuoso al tramonto salì sulla luna e dietro una tendina di stelle”. Sembra quasi che il blues menzionato ovunque sia più una sfumatura in lontananza che non una cifra stilistica e caratterizzante, ma “That’s alright” (riempitivo preferito di Sugar, onnipresente nella sua discografia): avremo sempre i suoi dischi intramontabili da ascoltare, e quelli ‘tappabuco’ per svagarci. Sarebbe opportuno ricordare che “Est modus in rebus”, che non c’è sempre bisogno di rimettersi in gioco.
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